Sicilia

Di abbuffate, tramonti e levatacce

Agosto, 2019

Ci sono vacanze che rimangono impresse, si ricordano più facilmente di altre. Immagini vivide, ancora oggi, a distanza di parecchi anni. Fotogrammi che per svariati motivi, ammesso si conoscano, balzano alla mente come scattati l’altro ieri. Sorrisi, profumi, ansie e delusioni. Quel particolare ristorante, quella salita, quella spiaggia e quel tramonto.  Apri la valigia, chiudila, imposta il navigatore, scrivi al tizio su Airbnb. Azioni, emozioni, stati d’animo, tutto si è ben cristallizzato, tutto si rammenta specificatamente.

Fu una delle prima vacanze on the road, insieme. Avevamo alle spalle un’improvvisata, fatta di molti chilometri e scarsa programmazione in terra spagnola. Ora invece più tempo e maggior predisposizione all’organizzazione. Si optò per l’Italia, per la mia vecchia e malandata polo e per il meridione. Ci conoscevamo ormai bene: il mio estremo peregrinare doveva essere compensato dalle sue richieste a sfondo culinario. Mi avrebbe concesso sveglie all’alba e assolate camminate.  Quale contraltare pasti e tavole tipiche, abbondanti e soddisfacenti. Non ci sarebbe stata gastronomia nella quale le avrei potuto evitare l’ingresso. Interessi reciproci, soddisfatti ampiamente.

Fummo attratti dalla Sicilia, dall’idea di seguirne la costa in senso orario e farci trasportare, per una ventina di giorni, dai suoi colori, dai suoi profumi, dalla sua canicola. Ahinoi, a diposizione unicamente le settimane centrali di agosto. Respiri profondi, anima in pace e tanta pazienza. Partenza intelligente in tarda serata, viaggio in notturna e di prima mattina presenti al porto di Salerno. Il traghetto sarebbe partito a distanza di sei ore, forse un po’ troppo presto. Una colazione, due colazioni… E mo’? La caffeina non produce effetto. La stanchezza chiede il conto e gli occhi faticano a rimanere aperti. In qualche modo tiriamo l’orario d’imbarco. Salerno-Messina in traghetto, costava poco: mai più! Cinquanta posti a sedere, in cento metri quadri, per cinquecento persone imbarcate. Credevo fosse uno scherzo, mi sbagliavo purtroppo. Otto (forse più) scomodissime ore scortati a vista dagli occhi degli avvoltoi che, salendo per ultimi, non avevano trovato posto a sedere. Teniamocelo stretto. Vado in bagno, mi raccomando non ti addormentare, difendi il territorio ad ogni costo. Le ultime ore, sul pontile, stremati, ci consegnano un tramonto difficile da dimenticare: a sinistra del sole che come una palla infuocata si immergeva nel mare, spruzzi di lava coloravano il cielo. Stromboli ci salutava così, con pennellate rosso lava, irregolari, su uno sfondo che assumeva le tipiche sfumature del tramonto.

Messina, cena, due passi, nanna. Iniziamo a realizzare di essere in vacanza, col corpo, con la mente. La Sicilia ci accoglie con un tripudio di street food e prezzi irrisori. Sveglia presto, prestissimo. Direzione Isola Bella, che è certamente un gioiellino, sino a tarda mattina, quando perdendo di vista il tuo asciugamano per pochi secondi rischi scompaia, sotterrato da costruzioni altrui di alta ingegneria. Via, troppa gente, saliamo a Taormina. Fa caldo, tanto. Investiamo qualche euro nella funivia, per non arrivare stremati e goderci il paese. Incontro con il primo di molti amori, la granita. Ai gelsi, alla mandorla, a quello che vuoi (scrive uno che sempre l’ha sempre considerata acqua sporca). Quella vera, quella siciliana, è totale. Colazione, post pranzo, merenda, quando vuoi. Diversa consistenza, diverso sapore. Meglio del gelato, meglio di qualsiasi altra cosa di pari genere. Taormina è ben curata, in ogni suo negozietto, in ogni suo dettaglio. L’aria di inculata, pronta ad abbracciare il turista, la si respira nell’aria. Rimandiamo dunque aperitivi e simili ad altro contesto. La coda fuori dal teatro romano è lunga e sotto a un sole cocente. Ciao Taormina.

Ci dirigiamo a Catania, che in vari modi me l’ero immaginata bensì mai così piena si scale, di saliscendi, di polpacci che implorano pietà. Urge un ristorante, possibilmente areato per far riprendere alla camicia il colore originario. Ritmi lenti, molto lenti. Quanto mi piacciono nonostante l’appetito. La calma regna sovrana in ogni gesto, nella quotidianità. Abituato diversamente, mi sono arreso, con piacere, e mi sono trovato benissimo. Uno tra i tonni più buoni della mia vita e poi un giro per il centro città. Catania è viva. E’ un piacere passeggiare in mezzo a luci, profumi e vociare. Troviamo un locale-libreria autogestito. Un cubalibre con il Matuzalem a quattro euro. Ok, fai due.

Catania era sull’itinerario soprattutto per un motivo, il mercato del pesce. E lì, dopo una delle mille colazioni memorabili che ci avrebbero atteso, perdiamo la mattina. Non può essere raccontato, va visto, odorato, vissuto. E’ un quadro, e spero che nessun progresso tecnologico possa mai sostituirlo. Caotico, verace. Astenersi maniaci della pulizia e promotori dell’HACCP. I colori, le grida, lo scorrere dei rigagnoli per terra… Chevelodicoafare. Accurata perlustrazione. Pranzo street food con vista mercato, poi ancora qualche tappa culinaria compiaciuta da arancini e fritti vari. Bene, gonfi come zampogne, sotto quaranta gradi si sale sull’Etna, quali condizioni migliori. La guida ci stiva nei comodi posti finali della jeep. Come sardine in scatola veniamo accuratamente estratti ogni tappa della visita, non confortevole ma ben organizzata. Culmine l’accoppiata finale, tramonto e aperitivo sui crateri spenti. Tanta roba.

Dopo l’ennesima abbuffata lasciamo Catania per Siracusa. Nell’intermezzo la popolare spiaggia di fontane bianche. Carina, piacevole, fino a che non ci fossero più persone che granelli di sabbia. Basta una pausa al bar per trovare i nostri teli all’interno di un area protetta, saggiamente disegnata con ombrelloni e sdraio. Con comodo eh, tranquilli. Almeno ridateci gli asciugamani. Evitando litigate muoviamo su Siracusa. Serata e giornata dedicata a Ortigia. Un gioiello. Le luci, la sera, le donano un aspetto romantico. La pietra, i tavolini nei vicoli, l’odore del mare nascosto dietro l’angolo. Cena in una singolare taverna che prevede quale unica portata un tagliere, di dimensioni abnormi, sul quale il simpatico oste ci schiaffa laqualunque dell’eccellenza di terra siciliana. La mattina successiva sfidiamo il solleone e ci lanciamo nella visita del Parco archeologico della Neapolis. Meriterebbe più tempo ma fatichiamo parecchio, il caldo è terrificante. Perdiamo la partita dopo pochi set. L’aspetto sentimentale di Ortigia cade con l’avanzare del sole ma non perde certo di suggestione. Si aprono le tende dei mercati, ape car rumoreggiano tra le stradine e gli ambulanti fanno sentire la propria voce. Meno delicata, più viva, schietta. Incuriositi da una fila assurda ci accodiamo. Una drogheria ha allestito all’esterno, all’entrata del locale, un banco per la preparazione di panini express. L’attesa viene allietata da omaggi di vario genere: vino bianco, formaggio, pane e succedanei. Due lingue intrattengono i clienti ma solamente due mani provvedono ai panini. Ci mettiamo poco a comprendere che la numerosa clientela è in attesa dello spettacolo più che per il cibo. Ogni panino è un romanzo di una decina di minuti, tra racconti, sberleffi, prese in giro e risate, tante risate. Un format inconsueto, opposto a tutte le attuali logiche di mercato. Costo felicemente ridicolo. Un invito alla calma, al perditempo, alla goduria del momento, tra cose semplici ma divertenti. In seguito scopriamo che le guide lo osannano. Bravo Antonio, te lo meriti.

A pancia piena fuggiamo verso la vicina spiaggia, apprendendo un’insolita usanza. La notte di ferragosto la si passa in riva al mare. Dal tardo pomeriggio, come funghi, spuntano miriadi di tende sulla lingua di sabbia. Si allestiscono griglie, accampamenti, dormitori. Compaiono borse frigo degne del più grande spot contro il consumismo. Si stappano birrette al ritmo delle salsicce che sfrigolano su braci improvvisate. Particolare, autoctono, bello!

Abbandonata Siracusa, nella frescura di un ferragosto siciliano, portiamo la vecchia polo prima a Noto, per una breve tappa, e poi a Ragusa. La deserta Ragusa. Prosegue infatti la giornata in spiaggia dei campeggianti. La ricerca di una trattoria aperta non dura comunque molto. Santifichiamo la festa a tavola, con un sobrio pranzo da circa tre ore. Camminatina per smaltire a Ragusa Ibla, ma no, non s’ha da fare: fa troppo caldo, e sì, abbiamo mangiato troppo. Optiamo per riprovarci in serata. In effetti va decisamente meglio. Una piacevole discesa al calare del tramonto ci mostra tutt’altre piazze, chiese e giardini. Peregrinare spensierato protratto alla nausea. “Che dici ci fermiamo qui a cena?” “No dai, proviamo a vedere se nella prossima via c’è qualcos’altro.” “Carino questo!” “Si molto, però magari più avanti ne troviamo uno ancora più figo.” Così, per innumerevoli volte, preferendo (io) l’ennesima birretta alla decisione. Lei a una certa sbrocca, con criterio. Io convengo, mi scuso. Ovviamente troviamo al completo i posticini che più ci ispiravamo ma rimediamo a ogni modo bene. Soddisfatti, ci godiamo le luci che risaltano arte barocca in ogni spazio. Strapazzati ma felici notiamo un’interminabile coda: la navetta per Ragusa superiore. Erriamo nella scelta di non attendere e improvvisarci nell’ultima fatica giornaliera. Pessima decisione. Arranchiamo come ciclisti sullo Zoccolan, raggiungiamo l’appartamento dilaniati.

Il giorno successivo, polpacci a mollo e defaticante in spiaggia. La sera conveniamo su Modica, senza cioccolato ma con una vista mozzafiato a cena. Siamo ormai, purtroppo, assuefatti da cotanta bellezza barocca. Dovremmo rimanere a bocca aperta, ma siamo abituati troppo bene. Camminiamo, ammiriamo, ciononostante.

L’intermezzo tra oriente e occidente, tra alba e tramonto, tra arancino e arancina non poteva che essere Agrigento. Il clima invita la sua visita allo sfiorire del sole. Il tufo calcareo acquisisce ogni sfumatura tra l’arancione e il rosso. Saremo anche abituati ma cazzo… Qua è tanta roba! Senza citare i vari luoghi comuni sul perfetto stato di conservazione, la magia di visitare la Valle al tramonto è stata forte. La mente corre a un passato lontano. Inimmaginabile, ora. L’incantesimo non svanisce coll’avanzare del crepuscolo. Le installazioni luminose donano altra veste ai templi, più museale, più distante, non meno affascinante. La sera ci abbraccia Agrigento. Raccontare di un bel centro storico, una cena da favola e piacevoli passeggiate potrebbe risultare scontato e prevedibile, già ripetuto. Ma è così, anche questa città ci è piaciuta un sacco.

La sveglia suona all’alba e pronte le maledizioni del caso si manifestano. Obiettivo scala dei turchi all’interno di un turismo sostenibile, dal punto di vista numerico, non certo etico. La levataccia produce i suoi frutti facendoci godere per qualche ora un paesaggio inconsueto, naturale, luccicante. L’istinto, ahinoi non per tutti, è quello di proteggere un dono del genere. Goderne si, ma impegnandosi a deturparlo il meno possibile. Foto, tuffi e tintarella. Si va a Trapani. Sicilia Occidentale.

L’appartamento, in una posizione strategica, consente di muoverci a piedi tra mercato, porto e centro città.  Nello stupore generale dell’ufficio del turismo, investiamo qualche euro nella Trapani card. Rispettivamente la numero due e tre. La prima fu gentilmente offerta al sindaco due anni prima, al lancio dell’iniziativa. Merenda con arancino e optiamo per Erice. La card, da noi derisa poco dopo l’acquisto, si rivela un colpaccio: autobus e funivia gratuiti. Per quest’ultima, inoltre, ci consente di saltare la coda di un centinaio di persone che avevano avuto la stessa idea per la serata. Ovvio, ci è voluto un attimo, nessuno aveva mai visto né sentito la trapani card ma sì, esisteva e a seguito di qualche controllo balzammo in testa al lungo serpentone, tra vari ostili epiteti.  Erice è un bijou. Reticolato medievale di viuzze, piazze e chiese. Anche qui, un grande tuffo nel passato. D’obbligo il tramonto nella zona del Balio, tra castello, torre e giardino all’inglese. Erice, faro del mediterraneo, domina la costa, da San vito lo capo alle Egadi. L’atmosfera felice e distesa invita a camminare, senza scopo, per le stradine di origine normanna. Nota di merito, da un punto di vista culinario, l’assenza di esagerata inflazione che, considerato il contesto, sarebbe parsa giustificabile. Nota di demerito, grave, l’assenza di pullman o navette da un cert’ora della sera in poi. Dalla stazione funicolare, il centro di Trapani, non è così vicino. Una lunga camminata, della quale avremmo fatto a meno.

La simpatica coppia proprietaria dell’appartamento ci da un paio di dritte sul mercato del pesce. Accogliamo e mettiamo in pratica i consigli. Baipassiamo bancarelle e venditori dirigendoci in fondo al tendone, dove ci aspettano tonno e pesce spada. Ennesimo amore a prima vista. Che colori, che profumo. Sotto le due dita lo zio non taglia nulla, bene così. Per cena siamo a posto. Poco più di due chili di pesce per poco meno di venti euro. Increduli. Spesa in frigo e cerchiamo una spiaggia un poco più a sud. Non fatichiamo a trovarne una stupenda, con acqua cristallina. Rimane il problema affollamento ma ci conviviamo ormai sereni. Leviamo le tende a metà pomeriggio, direzione Saline. Non rimaniamo delusi. Le foto sui vari social, è vero, si sprecano, ma che figata! Seggiole azzurre, aperitivo e tramonto. Riflessi nell’acqua, mulini all’orizzonte. Vorresti durasse di più: che quei colori, quel cielo, stessero lì ancora un’ora buona, almeno il tempo di berne un altro in beata contemplazione.

Toh, guarda caso, un’altra sveglia che anticipa l’alba. Zaino pronto, ci si imbarca, giornata a Favignana. Urge uno scooter a prezzi modici. L’offerta è abbastanza alta, i primi, quelli più vicini al porto, quelli che hanno più smania, chiedono cifre eccessive. Ce li lasciamo alle spalle consci di aver preso il primo traghetto mattutino e poter giocare quindi d’anticipo. Incuneati in un paio di vie all’interno, troviamo chi fa al caso nostro. Il motorino è malandato, non ha né frecce né specchietti e gli indicatori sul cruscotto non sono funzionanti. Detto ciò, pare funzionare e ce lo noleggia per la metà del prezzo rispetto alle precedenti offerte. Andata. Un unico avvertimento: fare subito benzina, giusto qualche goccia di carburante rimasta. Il distributore, il solo di tutta l’isola, è per fortuna vicino… Peccato che anche lui è a secco e prima delle 12 non arriva alcun rifornimento. Ottimo. Rimaniamo in zona pregando di non doverlo spingere. Bagno nelle calette vicine. Tra Bue marino, Cala Rossa e via dicendo. Bellezze fuori dal comune. I colori del mare ti attraggono, ti catturano. Diventa impossibile uscire dall’acqua, immersi in mille tonalità tra il verde e il blu. Riempito il serbatoio giriamo in lungo e in largo l’isola, con mini-soste in svariate calette. Buttando gli asciugami e tirandoli su poco dopo, desiderosi di scoprire ogni angolo più nascosto, dove gettarsi e perdersi dietro ai pesci.

La giornata sarebbe terminata nel migliore dei modi, con una cena tanto bramata. Quasi ogni luogo programmato aveva un suo perché culinario, a Trapani questo sarebbe stato il cous cous. Condizionale, ecco. Pecco, per la milionesima volta, nel giocarmi la carta più importante in ultima mano. “No, ci dispiace, oggi è l’unico giorno della settimana in cui non prepariamo il cous cous.” “Ma che cazzo!” Affranto, rimedio su altro. In Sicilia, a tavola, si casca sempre in piedi, senza alcun dolore.

Si prosegue verso nord, con sosta emotiva lungo l’autostrada, quell’autostrada. Le idee sono restate, e sulle mie gambe cammineranno sempre le loro tensioni morali. Uomini, esempi immortali. Palermo è sinonimo di Panino con la milza, di pane e panelle, di street food nella sua massima espressione. Di giorno i suoi mercati, unici, per i quali camminare lentamente rimpallando lo sguardo a destra e sinistra, da una bancarella all’altra. Per le strette vie pedoni, biciclette, motorini, aspettatevi di vedere di tutto. Consigliata una certa apertura mentale. Dimenticate il vostro british aplomb e calatevi nella parte. La sera le piazze si riempiono di tavoli e panche, le cler si alzano, griglie e friggitrici improvvisate creano scie di fumi nell’aria, tirano i sani all’insù, dettano la via. Giriamo la testa a 360 gradi, con l’acquolina in bocca, incapaci di scegliere. Palermo è un chilo al giorno.

Il sole picchia forte e la cultura sa essere spesso funzionale e ospitale. Ristoro dalle temperature equatoriali la cattedrale e Palazzo Reale rappresentano gioielli arabo-normanni. Dividiamo le giornate tra visite culturali e mare, tra Castellamare del golfo, Mondello e altre spiagge tanto conosciute quanto invivibili. Per l’arrivederci cerchiamo un litorale meno noto, più tranquillo, dove oziare qualche ora prima dell’incubo rappresentato dal traghetto di ritorno, il quale avrebbe anticipato nervoso e coda, tanta coda in una domenica d’agosto, di rientro.

Rincaso da un lungo viaggio stanco, ma con un bel sorriso. Porto a casa un’infinita sequenza di immagini culinarie, dolci e salate, di godurie dopo ogni boccone. Porto a casa molta cultura e tramonti in posti iconici. Porto a casa un’insospettabile disponibilità, più di tutto. Con flemma e ritmi lenti, non è mai mancato un consiglio, una parola d’aiuto, un’attenzione. Completamente disinteressati, al di là della persona, al di là del turista.  La Sicilia è un mondo lontano dalla mia quotidianità, un mondo che non conosce fretta, nebbia e pessimo cibo.  La Sicilia è un cambio di registro che fa bene al cuore, che andrebbe messo in pratica più spesso.

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